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Paolo Valerio

Da Koovagam a Napoli, dal mondo delle hijras al mondo dei femminielli napoletani: contrasti, affinità e differenze

By Tiziano Manna20/09/2020Giugno 19th, 2023No Comments

Cosa ha spinto, Jess Kohl, giovane fotografa londinese i cui reportage sono stati pubblicati su numerose riviste internazionali, a venire a Napoli dopo aver partecipato a Koovagam, a quello che è considerato da molti il più famoso festival trans* dell’India, dove ha realizzato un interessante reportage fotografico e il documentario “Nirvana”, recentemente premiato al Fashion Film Festival di Milano?

Lei stessa in un’intervista ci aiuta a trovare una risposta al nostro quesito, facendo riferimento ai suoi più recenti interessi che sono focalizzati sull’intersezione tra cultura, religione e gender non conformity. Da ciò deriva il suo impegno a documentare attraverso una ricerca fotografica i contrasti, le affinità e le differenze tra la querness occidentale e quello orientale. Per questo motivo si è recata a Koovagam dove, nel tempio dedicato al dio Koothandavar, si svolge sin da quando se ne ha memoria, un’antica festa alla quale partecipano le hijras, ovvero persone che, pur essendo nate con caratteri sessuali maschili, vivono indossando abiti femminili e assumono e comportamenti stereotipicamente propri del genere femminile, che possiamo quindi denominare con il termine più moderno, e più noto al vasto pubblico, di persona transgender o gender non conforming o gender variant o gender fluid.

Con questi termini ci riferiamo a quella realtà di persone che vivono un’identità di genere non conforme al proprio sesso biologico e vogliono e chiedono di poter esprimere, nei comportamenti e nelle relazioni interpersonali, il sentirsi uomo o donna, al di là della propria struttura anatomica, senza cambiare completamente il proprio corpo e senza sentirsi costretti ad omologazioni di alcun tipo.

A Koovagam le hijras, che sono particolarmente devote alla dea Bahuchara Mata, si riuniscono da tempo immemorabile per motivi strettamente religiosi, anche se oggi, come Jess ampiamente ci mostra attraverso il materiale visivo ivi raccolto, all’evento sono state associati sfilate di moda e altri eventi che con la religione hanno ben poco a che vedere.

In realtà a Koovagam viene ricordato un episodio che riguarda il dio Krishna che, sotto forma di donna, sposa un principe che, grazie a questo matrimonio vince un’importante battaglia, a costo però della sua vita. Per celebrare l’evento le hijras, anche esse come il dio Krishna – uomini diventate donne – si incontrano una volta all’anno nel tempio di Koovagam, per celebrare un matrimonio simbolico con il dio Koothandavar, del quale però – trascorsa la notte – diventano subito vedove.  Ne piangono, quindi, la morte con danze rituali e con la rottura dei braccialetti che ornano le loro braccia, ormai non più compatibili con la loro condizione di vedovanza.

Perché mi sono tanto a lungo soffermato sulla storia delle hijras indiane? Qual è il filo rosso che unisce il reportage realizzato da Jess in India con la sua venuta a Napoli e con la bellissima mostra fotografica presentata in questo catalogo?

Per rispondere a queste domande cito di nuovo Jess che in un’altra intervista afferma di essere approdata a Napoli per documentare, attraverso le sue fotografie, una delle più antiche comunità di persone gender non conforming ancora esistenti in Europa, quella dei femminielli napoletani. Per questo motivo, venuta a Napoli, mi ha contattato avendo scoperto che insieme a Eugenio Zito avevo scritto vari articoli e due libri sui femminielli napoletani. Molte sono, infatti, le affinità tra il mondo delle hijras indiane e quello dei femminielli napoletani, pur nelle facilmente comprensibili differenze tra le due realtà e i due contesti culturali a cui il fenomeno fa riferimento: il subcontinente indiano per quel che riguarda le hijras e il mondo greco-romano, mediterraneo, per quel che riguarda i femminielli napoletani. Chi sono, dunque, o meglio, chi sono stati e sono tuttora i femminielli napoletani? 

Volendo dare una rapida definizione possiamo dire che con questo termine la gente di Napoli denomina quegli uomini che sentono e vivono come donne. Faccio, cioè, di nuovo riferimento a quella forma di soggettività che possiamo definire transgender come abbiamo fatto con le hijras indiane. La loro presenza a Napoli affonda le sue radici nell’antichità. Essi rappresentano uomini che si vestono come donne e ne mimano la gestualità. Una prima testimonianza della loro presenza a Napoli risale a Giovan Battista della Porta che nel suo testo De Humana Physiognomonia scrive nel 1586:

«nell’isola di Sicilia sono molti effeminati, et io ne viddi uno in Napoli di pochi peli in barba o quasi niuno; di piccola bocca, di ciglia delicate e dritte, di occhio vergognoso, come donna; la voce debole, sottile, non poteva soffrir molta fatica; di collo non fermo, di color bianco, che si mordeva le labbra; et insomma con corpo e gesti di femina. Volentieri stava in casa e sempre con una faldiglia come donna attendeva alla cucina et alla conocchia; fuggiva gli omini, e conversava con le femine volentieri, e giacendo con loro, era più femina che l’istesse femine; ragionava come femina, e si dava l’articolo femmineo sempre: “trista me, amara me”»

Dobbiamo poi aspettare Abele De Blasio, che nel 1897 nel testo “Usi e costumi dei camorristi” fa riferimento ai femminielli nel capitolo “’O spusarizio masculino”. I femminielli sono dunque persone che, come le hijras in India hanno svolto nella cultura partenopea un ruolo ben preciso testimoniato dalla loro presenza nei vicoli di alcune zone popolari della città di Napoli quali la Sanità, la Pignasecca, i Quartieri Spagnoli, il pallonetto di Santa Lucia, il Borgo Sant’Antonio Abate e la zona intorno alla Ferrovia.

In questi contesti la loro presenza è stata ben accettata nella cultura popolare senza molti pregiudizi. Le famiglie e la società circostante non emarginavano i “femminielli”, anzi li integravano nella cerchia familiare e nel contesto più ampio del vicolo e del quartiere, assegnando loro ruoli e mansioni particolari.

I “femminielli” non sono semplicemente dei travestiti, come qualcuno sbrigativamente ha tentato di liquidarli, né tanto meno omosessuali effeminati, o addirittura, come pure è stato detto, una mera invenzione letteraria degli anni Cinquanta; essi, probabilmente, incarnano una realtà sui generis, l’archetipo di un genere altro che è insieme arcaico e post-moderno. Il “femminiello” napoletano, con la sua capacità di sorridere e accettare incondizionalmente il dono della vita, può riassumere così, emblematicamente, anche lo spirito di una cultura. Forse i “femminielli”, con il loro complesso mondo fatto di travestimento, ambiguità, superamento fluido delle barriere sessuali che attinge al grande serbatoio della cultura napoletana, intesa come arcaica, contenitiva e conciliante, in grado di conservare ambivalenze e contraddizioni e di realizzare impossibili integrazioni, vivono, oggi, una profonda ed intrinseca trasformazione mantenendo continuità ed evidenziando differenze.

I “femminielli” napoletani rappresentano, dunque, un genere al confine e di confine come accade alle hijras indiane che, intervistate da Jess esprimevano il desiderio di partecipare a sfilate di bellezza e di diventare, indossatrici. Le identità di genere che “femminielli” e hijras esprimono, coniugano quindi arcaicità e post modernità – ovvero le caratteristiche di un mondo e di una dimensione socio-culturale non più esistenti – con quelle che siamo soliti indicare come conquiste del pensiero e della prassi contemporanea. Come ho ipotizzato insieme a Eugenio Zito questo fenomeno a Napoli, come sembra che stia accadendo anche in India, sta scomparendo nelle forme arcaiche che abbiamo imparato a riconoscere o meglio si sta trasformando non solo a causa dei cambiamenti sociali prodotti negli ultimi decenni dalla moltiplicazione delle diversità identitarie (ormai si parla sempre più di persone non binary/gender queer), ma anche a causa di una spinta globale alla omogeneizzazione culturale e alla normalizzazione sessuale sostenuta dalla cultura biomedica e resa possibile dai suoi avanzamenti tecnico-scientifici. Facendo poi esplicito riferimento a Napoli bisogna anche tener conto della metamorfosi che dopo il terremoto degli anni ’80 ha investito il tessuto urbano dei quartieri della città, dove per lo più viveva il popolo dei “femminielli”. A questo va aggiunto l’arrivo di nuovi flussi migratori extracomunitari e il significativo incremento del turismo nel centro storico della città. Tutto questo ha prodotto una perdita dell’equilibrio legato alla vecchia struttura del vicolo napoletano con la sua tipica economia ormai quasi scomparsa. In particolare, come accennato, essendo radicalmente cambiato il tessuto sociale dei quartieri popolari, dove per lo più vivevano i femminielli napoletani, si è innescato un meccanismo di estinzione  o meglio di trasformazione progressiva del fenomeno. Insieme ad una ampia fascia di popolazione napoletana molti dei “femminielli” che prima del terremoto vivevano nei quartieri storici della città si sono trasferiti o meglio sono stati costretti ad “emigrare” a Scampia, un nuovo quartiere della città di Napoli divenuto di recente famoso dopo la serie cinematografica di Gomorra. Ed è a Scampia che Jess incontra le sue “regine”, le sue drag (???) queen e mostra attraverso le foto presenti nel catalogo corpi e forme tra loro estremamente diversi che contemplano tutte le sfumature connesse all’espressione di genere. Alcuni dei personaggi presentati sembrano incarnare una condizione che sfida l’ordine sociale dei generi, proprio per essere indefinite e non immediatamente riconoscibili. Ma non è solo a Scampia che Jess ha incontrato i “femminielli”. Questo, infatti, rendono ufficiale la loro presenza nella società campana attraverso pratiche e rituali diffusi oggi nel mondo contadino che vive ai confini della città di Napoli e nei suoi dintorni. Penso alla “figliata” descritta magistralmente da Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle” e ripresa dalla regista Cavani nel film omonimo, e al matrimonio, descritto invece da Abele De Blasio nel testo prima citato.  Un altro rito ufficiale è la “Juta” a Montevergine. Come le hijras indiane sono devote alla dea Bahuchara Mata, così i “femminielli” sono devoti alla Madonna venerata nel Santuario di Montevergine, la Mamma Schiavona, la Madonna Nera e prendevano, e prendono tuttora parte, al pellegrinaggio (Juta) al santuario che si ripete ogni anno a Febbraio, nel giorno della festa della Candelora. In questo contesto la loro presenza è caratterizzata da canti e balli svolti in vari cerchi della tammurriata a cui tutti i presenti, uomini, donne, femminielli, partecipano con entusiasmo. Questa ritualità è profondamente legata ad un rito che la fonda, legato alla vita di San Vitaliano, vescovo di Capua, vissuto nell’VIII secolo, che avendo celebrato per errore  le funzioni religiose abbigliato da donna, scoperto, per sottrarsi alla morte, si rifugiò sul Monte Partenio dove, sui resti di un tempio dedicato a Cibele, fondò un tempio dedicato alla Vergine, sul quale, a sua volta, san Guglielmo nel XII secolo costruì il Santuario di Montevergine. Cibele, la grande madre, era onorata da sacerdoti evirati che indossavano abiti femminili: del suo solenne corteo facevano parte anche uomini che l’accompagnavano con una danza estatica tra le stridenti note di strumenti musicali.  Queste antiche e persistenti forme rituali che Jess ha documentato a Napoli e a Koovagam mostrano che esiste un complesso culturale molto diffuso e di lunga durata che va dal sud est asiatico all’area mediterranea, con estensione in Messico, dove analogo a quello dei “femminielli” e delle hijras indiane, è il ruolo svolto dalle muxe di alcune aree del Messico che godono di una accettazione sociale controversa, ma meno problematiche che altrove. Le muxe sono devote alla Madonna, in specie alla Immacolata Concezione e partecipano attivamente alla organizzazione di pellegrinaggi. A questo punto è ben comprensibile cosa abbia spinto Jess a venire a Napoli e possiamo ritenere, guardando le foto presenti nel catalogo, che sia riuscita a lasciare una traccia del mondo dei “femminielli” napoletani e, confrontando queste foto con quelle scattate in India, a mostrare similitudini, contrasti e differenze tra la queerness occidentale e quella orientale. Quello che mi ha colpito molto favorevolmente nel lavoro che Jess ha svolto a Napoli è il suo tentativo di mostrare i vari personaggi all’interno di una cornice familiare, evitando facili spettacolarizzazioni e mostrando tutta una variegata gamma di possibilità ed espressioni attraverso cui i personaggi da lei fotografati declinano la loro esistenza. Le foto di Jesse sono, infatti, ritratti antropologici, che mostrano in modo vivido il mondo nel quale vivono i “femminielli”, ripresi nella loro intimità, nelle loro abitazioni e con i loro oggetti di uso quotidiano. A questo punto è bene far parlare direttamente Jess Kohl:

«Campania is a region where Catholicism, gender nonconformity and strong cultural traditions are uniquely present and exist in harmony. Historically, nonbinary people were accepted and celebrated – I was interested to find out if these attitudes still existed».

«I wanted to explore if these historic attitudes of openness had trickled down through generations and helped to create an attitude of tolerance. I embarked on a journey through Naples, meeting individuals from across the queer spectrum – from non-binary youth in the city centre, to older trans women in Scampia. I fell particularly drawn to the Scampia community – there’s a strong sense of pride here, which continues to thrive in the face of hardship. It’s a notoriously dangerous area, but I felt very safe being here with this community because they are respected».

«It’s important that the work I make is collaborative, and that the communities I document want to be seen. In Scampia, there’s a glamour associated with having your photo taken. The people I photographed would suggest different iconic locations in the area for us to shoot and they were very open about their life experiences and welcomed me into their homes. Many of the people I met here work in ‘entertainment’, hosting Tombola (bingo) nights and drag shows. This seems to be true to queer communities globally; I think being placed in the role of entertainer is a way for the mainstream to pigeonhole queerness – if it exists to entertain them, it’s acceptable».

«This was an initial research trip to Campania, and I feel like I’ve just begun to scratch the surface of the history and tradition of femminielli culture, and how it’s bled into modern day attitudes in the region, how it differs between the city and countryside, how it’s changed between generations.»

Dalle immagini presentate nel libro si coglie che Jess, come desiderava, è riuscita a stabilire con le persone fotografate un rapporto autentico, che colpisce per la profondità della confidenza e complicità che esse rivelano. L’impressione che ho, riguardando tutte le foto presentate in questo catalogo, è che Jess abbia raggiunto il suo scopo di verificare se in Campania, dove tradizionalmente sono state accettate e celebrate nel passato le persone che non si riconoscono nel binarismo di genere, fosse tuttora armonico il rapporto tra la religione dominante, la non conformità di genere e le antiche tradizioni culturali. Dalle immagini offerte alla nostra attenzione riusciamo, infatti, a cogliere molti più messaggi di quelli che possiamo immaginare e ad acquisire una conoscenza non superficiale del mondo in cui Jess vuole farci entrare.  Per realizzare ciò dobbiamo soffermarci su queste immagini e provare ad osservarle con lo stesso sguardo con cui Jess ha guardato le persone fotografate, uno sguardo capace di vedere molte più cose di quanto ciascuno di noi sembra essere consapevolmente capace di percepire, uno sguardo che non dimentica, non allontana ciò che apparentemente ha soltanto visto.


Come citare questo testo

Valerio, P., (2020). Da Koovagam a Napoli dal mondo delle hijras al mondo dei femminielli napoletani: contrasti affinita e differenze, in Kohl J., Anime Salve, ShowDesk Edizioni, Napoli.


Autore

Paolo Valerio è professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e Presidente onorario del Centro Servizi per l’inclusione attiva e partecipata per gli studenti universitari (SInAPSi). La sua area di ricerca riguarda l’identità di genere, i transgenderismi, i Disordini della Differenziazione Sessuale (DSD) e l’orientamento sessuale, in ottica psicoanalitica.

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