Di strada, di ferrovie e di banchi di scuola spesso si parla e si scrive quando si torna ad evidenziare un momento incredibile, gravido di nuove forme e visioni, del Writing italiano. Milano, come altre città, vive di tre periodi indimenticabili che vanno dalla prima metà degli anni Ottanta, agli inizi dei Novanta per giungere agli albori del Nuovo Millennio. Con questo non intendo certo affermare che la nostra attualità non stia producendo tendenze e stili di rinnovato interesse, ma quegli anni hanno letteralmente determinato la configurazione estetica di alcune aree territoriali cittadine (per non parlare delle banchine della metro urbana). Spice si muove nel suddetto contesto, a partire dal periodo in cui, proprio a scuola, si accorge di condividere gli spazi scolastici con alcuni dei componenti dei TDK, CYB e CKC. Non è questo il momento per entrare nel dettaglio di come queste tre crew abbiano non solo creato un ponte reale con gli stili americani, ma siano anche stati in grado di “superarli”, scatenando un nuovo corto circuito di confini cromatici, pieni e vuoti, pattern grafici e linguistici nelle generazioni più giovani.
Certo è che la scena milanese di quei primi anni Novanta travolge le scelte delle superfici su cui intervenire, le modalità di realizzazione e le attitudini al confronto e anche allo “scontro” stilistico nell’esigenza di sperimentare pur tenendo fermi gli insegnamenti americani. Lo stesso Spice, molto giovane, fonda i TAK e poco dopo i GR e infine (da un incontro con i MDF) nascono i VDS-LORDS OF VETRA, che trasformano la piazza omonima nel nuovo centro del writing milanese. Approfondendo il lavoro di SPICE (che negli anni ha assunto identità plurime come Epics, Psiche, 2Hype, Macho, Gesù1, Lordz, Koucka, Great One e andremo poi a capire perché) si comprende immediatamente di essere di fronte a uno scienziato della lettera, un artista delle proporzioni e degli sconfinamenti verso inedite frontiere del segno e del colore che, attraverso i singoli alfabeti, ha saputo innescare inaspettate relazioni non lineari fra la superficie in cui la lettera si è materializzata e ciò che le sta intorno.
Un altro elemento molto importante e che, in parte, distingue Spice, è la percezione del “pezzo” in fatto di codifica e di lettura al punto tale da rigenerare di volta in volta il suo approccio all’indagine alfabetica. La capacità del “pezzo” di divenire più comprensibile, non solo dalla comunità di riferimento, diviene un’occasione unica anche per la stessa città che, sovraccarica di segni, di elementi visivi, di epidermidi architettoniche eterogenee, fatica sempre più a enfatizzare le proprie caratteristiche.
Recuperando lontane citazioni che potrebbero tornare qui utili, una delle finalità dell’arte «è di esprimere idee, traducendole in un linguaggio speciale. […] Ma se è vero che, nel mondo, i soli esseri reali sono le idee, se è vero che gli oggetti non sono che le apparenze rivelatrici di tali idee e, di conseguenza, non hanno importanza se non come segni delle idee […] non è meno vero che per i nostri occhi miopi gli oggetti appaiono sovente come oggetti, indipendentemente dal loro significato simbolico – al punto che, talvolta, non riusciamo ad immaginarceli come segni.»
Mi riferisco all’articolo del critico G. Albert Aurier pubblicato il 15 marzo del 1891 dal titolo Il simbolismo in pittura. Paul Gauguin sul n.15 della rivista francese Mercure de France dove, per la prima volta, vengono elencate e definite le caratteristiche di un nuovo modo di intendere il gesto pittorico, lo spazio che lo contiene, la visione dell’artista.
Certamente siamo distanti dal “discorso” appena iniziato su Spice, ma mi capita spesso di tornare a quelle parole quando mi trovo di fronte a un intervento adulto e sofisticato di Writing. Sono altrettanto sicura che quasi nessuno degli operatori culturali che affollano il mondo del Lettering si sia mai soffermato su di un manifesto artistico così apparentemente opposto per generazione e riferimenti al mondo dell’arte urbana, ma c’è qualcosa, tutt’oggi, che mi riporta alle affermazioni di Aurier.
Sempre nello stesso intervento il critico continua così: «Dunque, per riassumere e concludere, l’opera d’arte, per come mi è piaciuto definirla, sarà: 1° Ideista, poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’Idea; 2° Simbolista, poiché esprimerà questa Idea attraverso delle forme; 3° Sintetica, poiché essa comunicherà queste forme e questi segni secondo una modalità di comprensione generale; 4° Soggettiva, poiché in essa l’oggetto non verrà mai considerato in quanto tale, ma in quanto segno dell’Idea percepito da un soggetto; 5° (è una conseguenza) Decorativa, perché la pittura decorativa propriamente detta, come l’hanno intesa gli egiziani, probabilmente i greci e i Primitivi, altro non è che una manifestazione artistica contemporaneamente soggettiva, sintetica, simbolista e ideista.»
Per essere più coerenti con quanto si sta scrivendo i famigerati cinque punti simbolisti altro non sono che ipertesti, pretesti stilistici per affiancare le varie riflessioni che lo stesso Spice svolge all’interno di questa pubblicazione. Ecco che allora i cinque elementi possono essere dislocati fra i suoi vari interventi, sebbene non possiamo e non dobbiamo dimenticare che intervenire su di un treno sia differente dal muro. Allo stesso tempo appare più chiaro perché l’autore non si sia fermato a un solo alter ego e perché le cinque lettere che compongono SPICE non siano potute bastare, pur restando l’identificativo primario di una complessa trasformazione stilistica.
Le altre identità sono una conseguenza della ricerca, dell’urgenza di sfidare l’alfabeto, le proprie capacità e, allo stesso tempo, l’occasione per sfondare il limite dei segni evoluti fino a quel momento. Arrivati fino a qui non si può che tornare all’inizio, all’idea che approda sulla carta del bozzetto, quel luogo molto privato in cui il writer analizza la forma e la sostanza della lettera. Credo che l’intera comunità, dal bomber allo styler (dall’immediatezza della tag, alla “aggressività” del throw up fino alla consapevolezza del pezzo compiuto con tempi, modi e materiali più congeniali) si definisca proprio attraverso precisi svolgimenti mentali in grado di materializzare le lettere, dalla fase “ideista” a quella “simbolista” (che contiene tutti i vari passaggi).
La grande sfida di Spice negli anni è stata quella di non sostare mai per troppo tempo in un nome, in un solo comparto dello stile, ma di avanzare, seppur con attenzione, a nuovi livelli, proprio come accade per il game della strada insito nella disciplina.
Torniamo quindi alla capacità dell’intervento di essere letto, forse non sempre compreso, ma certamente riconosciuto. In questo passaggio, e nella possibile mancanza di codifica, risiede in parte l’auto referenzialità del Lettering a partire dagli albori americani.
Riflettendo sulla triade tag, throw up e masterpiece la questione leggibilità e comprensione oscilla continuamente fra i termini accessibile e inaccessibile che si definiscono nella singola pratica, ma anche in rapporto al contesto e all’osservatore di riferimento.
Diverso quindi l’approccio alla lettura e all’analisi di un membro della comunità con quello di un passante che non sempre è in grado né di tradurre né di riconoscere lo stile. Il famigerato game a cui il movimento fa spesso riferimento è da intendersi come “guerra di stile” (style wars) fra le varie crew e non è certo da contemplare come pratica ordinaria del semplice fruitore della città.
Ciò nonostante la popolazione registra i cambiamenti, le metamorfosi, gli accadimenti stilistici perché gli interventi ne sono parte intrinseca, anche quando la stessa città, non comprendendo a pieno, confonde la disciplina (e suoi vari passaggi) come vandalismo grafico.
Lascio certamente a Spice l’ultima parola nel racconto della sua pratica e delle influenze, ma un riferimento alla storia del Writing americano e a come una parte della Old School sia entrata nel suo mondo è inevitabile. Ecco allora che dalla morbidezza della sola lettera dei primi anni Settanta, da quel soft che ci porta alla memoria il primo Phase2 (e anche qui l’occasione è indiscutibile per ricordare un grande artista recentemente scomparso) si passa a un macro settore più hard che nella seconda metà dei Settanta si definisce come Mechanical e che spinge l’unità linguistica e l’“assemblaggio” delle lettere ad essere più rigorose, a determinare le basi di appoggio alla forma singola in modo radicale. Il tutto finisce per contrapporsi con parti più tondeggianti, le famigerate curve, che portano a un movimento del pezzo armonioso e sinfonico (e in questo le varie connessioni, il loop, il folding ne sono elementi sostanziali).
Come scrive Spice, la «rigidità di alcuni passaggi» si alterna a un ritmo più morbido in cui sono evidenti i dettagli tipici della disciplina quali bits e sandwich che però, vale la pena sottolinearlo, non sono mai abusati (come invece spesso accade nel manierismo che vedo in giro). Un’altra sua caratteristica degna di essere ricordata è che in un corpus in cui la complessità formale risulta a tratti estrema, Spice resta saldo su alcuni elementi per poi tentare la sfida e lo stravolgimento delle figure dentro un equilibrio fatto di passaggi precisi. Di certo la scrittura resta l’inizio e la fine della sua ricerca, l’elemento fondamentale per determinare nella prassi (sia essa preliminare, di studio o di spontanea estemporaneità) l’elemento segnico e sintattico della lettera. Ma nella scrittura, nell’analisi della stessa e nella possibilità di allungare, sezionare, stravolgere le singole parti, e gli esempi in questa pubblicazione lo dimostrano, portano Spice, e il suo lavoro, a essere ora degno di essere storicizzato, di fare parte di un momento preciso del writing italiano che ha ancora occasione di dimostrarsi sperimentale e pronto a mettersi in discussione.
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Come citare questo testo
Naldi, F., (2022). Introduzione a Spice Style Diary. My creative process, collana editoriale Style Diary, Anno II n.2, ShowDesk Edizioni, Napoli, pp.8-9.
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Autore
Fabiola Naldi è dottore di ricerca in storia dell’arte contemporanea. Curatrice e critico d’arte, è docente di presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e di Urbino. Collabora con il MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) e l’Università degli Studi di Bologna (DAMS). Nel 2010 ha curato il volume Do the right wall edito da Corraini Edizioni.